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Morire on line: Morosini un anno dopo

by rainwiz. Average Reading Time: about 3 minutes.

Un anno fa moriva Piermario Morosini, un calciatore del Livorno nel giro delle nazionali giovanili.

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Ricordo che fui colpito dalla partecipazione collettiva a questo lutto.
Ho trovato, tra le bozze mai pubblicate, un post dello scorso aprile. Lo pubblico così com’è.

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Mi ha colpito l’ennesima ed enorme partecipazione collettiva a un sentimento, in questo caso il cordoglio per la morte di questo giovane e quasi sconosciuto calciatore, espressa sui media incrociati: tweet, status change, profile alter, sms verso trasmissioni televisive, post sui blog, commenti sui newsportal e tanto altro.

Inizialmente ho pensato che questa grande attenzione fosse dovuta alla contingenza di una morte in diretta, fatta di pixel. La centralità del visivo e la sua riproducibilità su ogni piattaforma costituiscono un potente moltiplicatore del discorso: poter vedere e rivedere quei filmati ha consentito a ciascuno di essere testimone oculare di un lutto. Già sul volgere degli anni Sessanta le immagini satellitari da grandi distanze, o le foto scattate da sonde che potevano visualizzare il corpo dall’interno, avevano aumentato il campo dell’esperibile fornendo un accesso diretto a forme di visualizzazione del reale in grado di scardinare la concezione del mondo come testo scritto e della cultura come documento agito. Di conseguenza la lettura, intesa come strumento individuale di formazione del soggetto, ha perso progressivamente la sua centralità, a favore di un’esperienza prevalentemente collettiva come guardare immagini. Ci troviamo davanti a schermi diversi ma siamo insieme di fronte allo stesso racconto del mondo.

Quello che sta ulteriormente modificando la nostra rappresentazione del reale è la possibilità (o illusione) della co-presenza attiva: possiamo stare in una stanza insieme agli altri e allontanarci per il tempo di un tweet che ci permette di essere altrove, connessi con remoti spazio/tempo nei quali vogliamo essere attivamente presenti. Tutto appare più vicino, raggiungibile, e quindi tutto mi riguarda, cioè fa potenzialmente parte di una delle mie identità situate nel versante digital della mia vita. Il cordoglio contenuto espresso per la morte del giovane calciatore del Livorno si trasforma progressivamente in una commemorazione accorata verso il “Moro”, dove il diminutivo è una strategia testuale di intimità e costituisce l’incipit di una narrazione.

La nuvola di segni fatta di foto, messaggi, commenti, tweet costituisce un racconto rituale collettivo: la lettura durante l’omelia funebre. La nostra esistenza, fatta di esperienze che intrecciano spazio fisico e cyber, è piena di riti, intesi come atti che seguono regole codificate. Ad esempio la registrazione (sign up) a un servizio come Facebook, Twitter o Cowbird è un rito di passaggio mirato a includere il soggetto in un nuovo assetto di relazioni e regole. Il numero delle regole non è affatto essenziale: è la tensione tra fuori e dentro che caratterizza questo rito, compreso lo stato liminale di un utente che si è appena registrato ma che non è ancora abilitato in quanto deve confermare la sua iscrizione attraverso un link inviato alla sua mailbox.

Come experience designer mi prefiggo sempre di progettare sistemi aperti, che stimolano le persone a partecipare in maniera non convenzionale, fino ad alterare le caratteristiche stesse del sistema e poter raccontare la propria meta esperienza. Penso a strumenti come ifttt oppure hootsuite che permettono di creare contenuti e pianificarne la pubblicazione in differita nel tempo. Che succederebbe se avessi pianificato un mese di tweet e post giornalieri e fossi morto nel frattempo?
Condivido dunque sono: usiamo lo sharing per definire noi stessi, diffondendo quello che pensiamo o facciamo. In questa prospettiva, senza una connessione, una rete di potenziali ascoltatori, noi non esistiamo; il silenzio è un buco nella timeline e la solitudine diventa una condizione limite, un problema da risolvere. Non commentare, non condividere significa semplicemente non esserci, cioè morire per davvero.

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