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Bittersweet Life (2005)

by rainwiz. Average Reading Time: less than a minute.

Contesto: Ho visto Bittersweet Life (2006) di Ji-woon Kim

Un gangster movie a strati: scarno, comico, melò, western.
Una volta tutto questo era appannaggio di Hong Kong.
Il direttore e il suo albergo si somigliano. Belli, lisci, lucidi, impeccabili.

Sentimenti strazianti appena accennati. Violenza pervasiva esibita.
Un meccanismo perfettamente funzionante. Forse troppo…

One comment on ‘Bittersweet Life (2005)’

  1. Alberto says:

    Rientrato da Lido. Mostra bellissima, film di livello inenarrabile, forse i migliori 12 giorni di cinema veneziano da 5 anni a questa parte (solo Moritzone, forse, aveva fatto meglio).

    Ma anche Mostra con una giuria mediocre che non ha saputo con i propri verdetti dare il polso di ciò che si è visto.

    Riporto qui l’editoriale di Roberto Pugliese, che condivido in toto:

    VENEZIA

    Leone d’oro a sorpresa: le luci rosse di Ang Lee accendono i fischi

    Blanchett e Pitt migliori attori

    Il giudizio sulla qualità della 64° Mostra va diviso da quello sul verdetto strabico, e stavolta francamente indecente, di una giuria di registi. È un esercizio retorico ricorrente e futile, ma è anche la prova ulteriore, se mai ve ne fosse bisogno, che i cineasti devono fare film, non giudicare quelli altrui perché non è il loro mestiere.

    Che dire? Due Leoni d’oro in tre anni fanno pensare a nuovi Orson Welles o Antonioni o Buñuel o Bergman. Invece è solo Ang Lee (terzo Leone cinese consecutivo…), l’astuto autore dell’ipertrofico, iperkitsch, scandalistico e tediosissimo mélò-spy-erotico “Lust, caution”, tipico prodotto da esportazione quanto “Brokeback Mountain” lo era da importazione per il mercato extrastatunitense. Migliore attore Brad Pitt per la sua catatonica performance nell’accademico e soporifero “The Assassination of Jesse James…” è una barzelletta; miglior interpretazione “femminile” (!) Cate Blanchett che in “I’m not there” fa la parte di un uomo è surreale; premio per regia a Brian De Palma, quasi fosse un giovane emergente da incoraggiare, è un insulto. E il Leone d’oro “speciale per il complesso dell’opera” a Nikita Mikhalkov, che con il suo splendido “12” aveva evidentemente sparigliato giochi già decisi, è un contentino abbastanza desolante. Idem per l’ex-aequo (formula che sarebbe da abolire in toto, invece che inventarsi deroghe ad un regolamento che ormai è diventato più elastico di Tiramolla) della giuria al dolente e corale “La graine et le mulet” di Kechiche e al virtuosistico polittico dylaniano “I’m not there” di Haynes. A questo punto ci stava almeno anche il nostro Porporati con il suo “Il dolce e l’amaro”, unico squillo italiano in una presenza per due terzi men che mediocre. Per non parlare del bellissimo e dimenticato “In the valley of Elah” di Paul Haggis. O del sulfureo Branagh. O dell’anarchico “The Darjeeling Limited”…
    Andiamo oltre, perché i premi passano ma la Mostra e la Biennale restano. Tutte le sfide che questa edizione si era prefissa sono state ampiamente vinte. È stata vinta la sfida della qualità, perché il panorama autoriale presentato ha dimostra to una tensione etica, una varietà stilistica e un’attenzione ai nuovi linguaggi decisamente fuori dall’ordinario. Si pensi solo, in tutti e tre questi registri, a “Redacted” di De Palma. È stata vinta la sfida dell’impegno. La 64° Mostra ha parlato chiaramente e con forza di guerra, di morte, di ingiustizia, di emigrazione, di lavoro nero, di totalitarismi: merce difficile da vendere sullo schermo, ma che in alcuni casi (da Loach a Mikhalkov, da Haggis a De Palma, da Kechiche a Chahine) ha trovato qui un’eco possente. Cresce anche il livello qualitativo delle cosiddette sezioni parallele, in particolare “Orizzonti” e “Giornate degli autori” (quest’ultima foriera di film di cui sentiremo riparlare, a cominciare da “La zona” di Rodrigo Plà, vincitore del Leone opera prima). È stata vinta la sfida del pubblico e si è riscaldato il clima, in genere piuttosto tiepido, intorno ai luoghi e ai momenti della Mostra . Questo anche grazie ad una presenza notevole e costante delle star, che spesso non sono più solo “divi” ma veicolano produttivamente (da Clooney a Pitt a molti orientali) una proposta e un’identità di cinema: e la sinergia star-pubblico-mostra è, come si sa, vitale per la manifestazione lidense.
    Adesso, al di là delle nomine in scadenza, c’è da progettare il futuro. Che non passa, come ricordava alla vigilia Marco Mller, solo per l’erigendo nuovo Palazzo del Lido ma deve comprendere un bilancio condiviso del lavoro compiuto e una analisi seria, se occorre attraverso una ridiscussione collettiva, della politica culturale cinematografica nel nostro Paese, non più identificabile solo con vaghi sostegni ministeriali o con promesse di leggine più o meno efficaci. È un progetto di lungo respiro, ben chiaro per quanto riguarda il cinema nella testa di Mller, che coinvolge però l’intera Biennale nel suo rapporto con il territorio, che tocca anche nodi scottanti come le condizioni dell’Archivio storico, e la cui elaborazione ha guidato tutta la presidenza di Davide Croff. Il futuro, quando si parla di cultura, non ragiona in termini di “quadrienni” o di logiche di appartenenza, ma di progettualità. E se questo è il disegno in fieri, non si vede chi meglio dei suoi ideatori potrebbe e dovrebbe portarlo a compimento.

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