Visual culture – Photoshop for democracy
by rainwiz. Average Reading Time: about 2 minutes.
Riprendo un post interessante dell’amico Vincenzo Cosenza
Dalla prospettiva di antropologo interessato alla comunicazione visuale trovo irresistibile tutto il corpus di immagini ritoccate che ritraggono le icone dei media.
Senza avere la pretesa di ripercorrere la storia e la teorie sulla "cultura visuale", dalla rappresentazione prospettica di Paolo Uccello al Web, è semplice constatare quanto sia diventata rilevante la fruizione dei i mezzi di comunicazione basati sulla dimensione visuale (istant photo, cinema, video, Web) nella nostra vita quotidiana. In antropologia visuale si è fatta strada l’idea che la forma primaria di approccio e comprensione del mondo attuale sia visuale, e non più testuale, come è stato per secoli (Nicholas Mirzoeff, Sartori e una lista infinita + n…).
Questo overloading di visivo è sempre meno prodotto dai mezzi stessi, una volta monopolisti delle competenze e dei mezzi di produzione degli artifatti dell’industria culturale. Oggi la bilancia della produzione di immaginario pende verso il general intellect: anche queste "illuminazioni", queste "immagini sensazionali" sono il frutto di idee e lavoro di reti sociali in cui prosumer dell’industria culturale esprimono la loro creatività rielaborando ricorsivamente i segni che hanno consumato ieri (Carlo Formenti citerebbe il Marx dei Grundrisse).
Non sto dicendo nulla di sensazionale. È tutto acclarato, in una comunicazione scientifica che usa anche i blog dei professori universitari per contaminarsi con questa marea e diventare nuovo materiale da ricombinare.
Il punto è che molti di questi studi non hanno ancora afferrato lo scarto che c’è tra lo spirito collaborativo delle comunità di pratica (Wenger) e le "culture partecipative" (Jenkins). Se le prime sono una comunità Simmeliana, un gruppo tra pari in cui armonicamente si tende alla conoscenza collettiva, le seconde non hanno nulla di questo retroterra hippie ma traggono nutrimento nella dialettica che si stabilisce tra mainstream e le spinte innovative: il loro humus è proprio questo conflitto, questo campo di tensione. Per non frammentarsi in un universo di culture locali legate ciascuna al proprio immaginario, le culture partecipative hanno bisogno del collante fatto dai media broadcast/mainstream per avere una base comune da mettere in discussione, ridicolizzare o combattere, bucando il velo della rappresentazione al fine di smascherarne gli stratagemmi.
La campagna "Berlusconi-Joker per la libertà di stampa" è l’ultimo esempio, in ordine temporale, di questo processo.
Per una prospettiva storica l’uso del fake e del fotoritocco come strumenti di comunicazione politica rimando, come ha fatto Vincenzo, al blog di Henry Jenkins, direttore del CMS (Comparative Media Studies Program) presso il MIT nonché autore di Convergence Culture (capitolo 6.).
Linko a questo post anche tutte le immagini da scaricare per partecipare attivamente alla campagna.
P.S. Un piccolo contest sulla memoria collettiva: chi ricorda in quale occasione (senza andare a cercare) è stata scattata la foto che riporto sopra?
grazie, ottima analisi 🙂
Conferenza stampa congiunta Putin-Berlusconi in Sardegna nel 2008, credo; B. si rivolge alla giornalista che ha appena chiesto a Putin dei suoi rapporti con la ginnasta e Putin l’ha guardata gelido e silenzioso. A questo punto B. si è sentito in dovere di rompere il ghiaccio con una delle sue solite gaffe planetarie. Quando si dice l’ospitalitÃ
Dimenticavo, Wenger ha precisato in molte occasioni (anche nel suo testo principale) come il suo concetto di Comunità di Pratica non debba essere inteso in senso armonioso-simmeliano. Le CoP possono essere (e di fatto sono quasi sempre) anche conflittuali. Il punto non è il grado di accordo tra i membri ma l’insieme di relazioni significative e di pratiche condivise che abilitano una qualche forma di apprendimento. Ciao