L’incontro con Christer Strömholm
by rainwiz. Average Reading Time: about 2 minutes.
Gli incontri sono un fattore non predeterminabile.
Alcuni sono semplicemente dirompenti.
Altri hanno bisogno di più tempo perché tu possa capire la loro portata.
Questa è la storia di un incontro, avvenuto nel 2006 con Christer Strömholm, che nel frattempo era già morto da 4 anni.
Al MOMA di San Francisco in uno dei pomeriggi pieni di stupore e ozio del lontano 2006, vidi questa foto.
Mi segnai sulle bozze degli SMS queste parole “Sillans la Cascade, Christer Strom”, storpiando il suo nome perché avevo perso un sacco di tempo per scrivere la o con la dieresi senza riuscirci.
Ossa, sacchi e questa bambola. L’associazione di idee fu immediata.
Lo so.
Vi sembra banale.
E probabilmente lo è, ma quello che ascoltavo a 14 anni è ancora un ricordo vivido, e quella morte avvenuta poco dopo un concerto visto a Roma ha rappresentato il primo timido squarcio che non tutto ha un senso, che siamo noi a cercare disperatamente di mettere in fila l’infinito divenire del mondo.
Death & Dolls. Doveva essere interessante questo signore svedese che negli anni Sessanta fotografava queste ossa e il buco nel sacco di juta dal quale spunta una bambola lisa. Ma quell’incontro non ebbe un seguito nell’immediato, finì negli innumerevoli SMS in bozza del mio vecchio cellulare, che ho diligentemente esportato e conservato prima di separarmene.
Poi, 3 anni dopo, ho visto quest’altra foto.
Ho pensato subito a Diane Arbus, ma mi sbagliavo.
La serie Hiroshima Sviten è stata scattata da Christer Strömholm nel 1963.
Anche se apparentemente ha qualcosa in comune con le foto del periodo pentax della Arbus (che forse dovrei chiamare Diane Nemerov), i volti di Strömholm sono profondamente diversi.
C’è dolore. Senza grida, senza strazio.
Lo sguardo del fotografo svedese non è lo stupore da umanista verso un mondo ripudiato, è l’attenzione intrisa di profondo pudore verso chi ha gli occhi bassi, verso chi è inascoltato perché è prigioniero e non può esprimersi.
La costrizione non è solo una condizione imposta dall’esterno, è la conseguenza di un percorso, è uno stato d’animo che possiamo sviluppare per legittimare alcuni alibi, per auto assolverci.
La serie più citata di Strömholm è Les amies de Place Blanche, ritratti di transessuali a Pigalle nella Parigi degli anni Cinquanta e anche questo tema è comune a Diane Arbus, ma se la cifra di Diane è l’intimità, quella di Christer è la distanza.
Distanza che in questo scatto, ispiratore di Scorsese, è diventata ormai incolmabile.
Quando Strömholm si cimenta con la Gioconda, il rito di passaggio delle avanguardie artistiche del Novecento, lo fa a modo suo, e il baffo ironico di Duchamp diventa una cicatrice, un gigantesco piercing che cuce un occhio cavo. L’imperturbabilità di Monna Lisa cede con compostezza e sembra provare un dolore dimesso.
Negli ultimi giorni penso spesso a una foto di Strömholm.
Una persona che ho adorato non c’è più.
Negli ultimi 16 anni mi ha dato così tanto che ho smesso di tenere il conto tempo fa.
L’intensità dei suoi sguardi è riuscita a trasformare i miei tentativi goffi di cura in un rapporto esclusivo.
Quello che apparentemente era il suo limite è diventato progressivamente il mio.
Oggi so che quella bambina con una mano sul viso che agita le mani nella nebbia non è lei, ma sono io.
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