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Frames as stories: Diane Arbus

Se vi state chiedendo chi sia Diane Arbus, siete capitati nel post sbagliato.

Place de la Concorde, da un lato Monet e dall’altro lei, Diane Arbus.
Già piazza Luigi XV, salotto tra le Tulieries e i campi elisi, diventa il posto dello spettacolo della morte, del carnevale fatto da carne e lame, fatale a Luigi XVI e Maria Antonietta.

Famosa per il suo selciato insanguinato dalle migliaia di teste mozzate (1.300 esecuzioni solo nell’agosto 1794), diventa la “piazza della rivoluzione”, del cittadino che è ammesso al cospetto del contratto sociale, quello Stato che esercita il diritto legittimo alla violenza (mio caro Weber…).

Quella violenza che diventa esercizio di stile retorico di menti intente a giustificare o legittimare, dire e contraddire in base a delle morali a priori. Quella violenza che ha una bandiera chiara, istanze dal basso e si trasforma in Terrore.

Il terrore. La violenza come antidoto alla paura. Quel sentimento che, accuratamente coltivato, diventa un arma di controllo di massa, un toccasana elettorale. Bisogna inventare mostri però, presenze che diventano minacce.

Ed ecco che la macchina della discriminazione si mette in moto con onde d’urto concentriche: stranieri (meridionali, poi albanesi, poi extracomunitari, poi cinesi), orientamento sessuale, stili di vita ecc.
Tutto fa gioco nella caccia al diverso. Il novecento non sembra ancora terminato.

Un novecento che ci ha visto cambiare molto senza essercene quasi accorti. Fissati com’eravamo ad un concetto di identità immobile e non fluida.

E così, mentre la nostre vite seguivano invano i pattern di divertimento individuati dall’industria dell’intrattenimento, ci siamo coperti gli occhi per non vedere

che il diverso era dentro casa. Anzi, c’era sempre stato con gli occhi pieni dello sguardo tra genitori e figli.

Ammettiamolo. Non tutti l’hanno compreso appieno. Avvolti nelle loro collane di perle, acquistate per essere orwellianamente più uguali degli altri, alcuni che l’hanno capito ci sono anche rimasti male.

E ora? Leninisticamente, che fare?
Qualcuno, dopo tanto arrampicarsi, si è depresso perché ha capito che intorno aveva solo pianura (#Moravia via @travaglio)

Questa gerontocrazia depressoide che ha mantenuto la reggenza blaterando banalità e soffiando sulle paure è disarmata.
È finito il tempo delle scusanti. La linea che separa quello che siamo da quello che non siamo è molto sfumata.
Io è un altro.

Una rivoluzione senza terrore. Certo non un pranzo di gala, ma nemmeno un’altra Piazzale Loreto.
Vorrei ripensare alla mala gestione del nostro Paese, ai soprusi quotidiani, alla criminalità mista a burocrazia e ridere di tutto questo quando sarà passato.
Ridere di tutto questo come fosse qualcosa di irreale, una boutade, una dimostrazione per assurdo.

Ed essere severi, riconoscendo i disastri già commessi verso il futuro.

Nei miei pensieri Place della Concorde e Diane Arbus si sono incontrati: ho visto queste storie intrecciarsi e rifrangersi in frammenti di altre storie.
Ogni scatto della Arbus mi ha sussurrato all’orecchio un segreto ’cause “A photograph is a secret about a secret. The more it tells you the less you know”.
Passando per 7 sale di pareti bianche e foto distanziate ho raccolto questi sussurri e fatto una storia mia.

Nelle ultime due sale c’è anche lei, Diane.
Uno spazio intimo, con le mura colorate, dove puoi leggere le sue lettere, ammirare i negativi e capire quanto lavoro ci sia dietro ad un singolo scatto:

Sembra di sentire la sua voce quando diceva: “I never have taken a picture I’ve intended. They’re always better or worse”

P.S. Un enorme grazie a Grandepiccio e a al progetto Artsy.

rainwiz: