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Day 15 – Nablus

by rainwiz. Average Reading Time: almost 5 minutes.

Nablus è una conca.

Questo ho pensato la prima volta che l'ho vista. Un foglio di carta accartocciato e incastrato tra le montagne.
Della Flavia Neapolis, la città costruita da Tito nel 72 d.c. in onore di suo padre, l'imperatore Vespasiano, non resta moltissimo. L'atmosfera miscela fasi alterne di dominazione araba (dal 636 al 1517) cristiana (dal 1099 per meno di cento anni) e ottomana: le strette vie della medina, i fumosi caffè al sapore di cardamomo, i vari hammam. E una presenza costante: le immagini dei martiri delle due intifada.

L'advertising della cartellonistica, paesaggio urbano quotidiano delle nostre vite, a Nablus è fatto di persone morte e armate. Muri, strade, pali, segnali stradali, tutto è una lapide.
Ho pensato: come si cresce guardando su ogni muro tuoi concittadini morti che imbracciano bombe o AK47? Come si fa a crescere quando per strada la situazione ricorrente è questa?

Non ho risposte per queste domande. Si cresce, punto. Perché Nablus e i suoi centocinquantamila abitanti vivono sotto assedio costante. Di notte i militari scendono dalle loro basi e, quando ritengono necessario o semplicemente quando vogliono, sparano, sequestrano famiglie, occupano case, arrestano persone. Abitare a Nablus significa non essere mai sicuro della tua incolumità, vivere compresso, come nel grande campo profughi di Balata, vivere su un filo teso e molti decidono di ribellarsi con il mitra in braccio contro l'oppressione, alimentando a loro volta la repressione. "Ecco la Stalingrado di Palestina!" esclama Simone. Ma io non sono affatto entusiasta.
Questa violenza quotidiana, che dura ormai da 20 anni, sembra aver cancellato le vie di mezzo: qui o si è martiri o reduci. Come dimostra la comunità dei samaritani, 300 persone con una storia affascinante. Come ti ricordano anche le lapidi, che si distinguono solo perché il marmo è meno poroso della pietra antica, in una città che assomiglia ad un camposanto.

A Nablus io ho un amico. Si chiama Wajdi Yaeesh.

In questo video racconta un po' la sua storia.

Wajdi è una persona fuori dall'ordinario. Ricordo i suoi occhi, mentre mi diceva: "ad un certo punto non puoi più scegliere, se non te ne vai, resti e combatti. Io ho deciso di restare, solo che ho scelto un modo diverso di combattere". Wajdi ha reagito alla violenza subita diventando un volontario della Red Crescent per soccorrere i feriti o le famiglie sequestrate in casa propria, costrette a stare per giorni in una sola stanza senza né cibo né acqua. Racconta di essere stato colpito soprattutto dalle reazioni dei bambini di fronte alla violenza. Per questo si è laureato in marketing (fund raising) e ha creato Human Supporters, un centro che si occupa dei ragazzi della città vecchi di Nablus, partendo dall'assistenza psicologica per la gestione degli eventi post traumatici fino all'istruzione, l'organizzazione del tempo libero e l'inserimento nel mondo del lavoro. Un'oasi nel deserto.

Il suo sorriso e la sua voglia di fronteggiare l'occupazione è trascinante. Grazie a lui ho avuto accesso a tante storie di Nablus. Come quella di Hamza S.A. Al-Tqtouq.

Hamza oggi ha 27 anni ed è il secondo figlio di una famiglia palestinese numerosa (maddai?). Suo padre è un commerciante di DVD, rasoi, musicassette, cartoleria e tutto quello che ha un involucro di plastica trasparente. Questo "buco" nel suk è pieno di foto di Hamza, perché è in galera da 7 anni. Appena ventenne è stato accusato di fiancheggiamento delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa. Da allora nessuno l'ha più visto. È in carcere in Israele e nessuno della sua famiglia o dei suoi amici ha il visto per andarlo a trovare. Ha ricevuto una condanna di 247 anni, eclatante, esemplare, per dare l'esempio.

Il padre mi parla dritto negli occhi, in arabo. Wajdi mi traduce le sue parole, ma io non riesco a spostare lo sguardo.
"Tutto il mondo sa chi è Gilad Shalit e s'indigna e si adopera perché Hamas garantisca che venga trattato come le convenzioni interazionali stabiliscono. Ma cosa sa il mondo dei 7.000 prigionieri politici palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Cosa sa il mondo di mio figlio, che è stato condannato a 247 anni? Io so che non lo rivedrò mai più e devo convivere con questo dolore. Ogni giorno".
Lo guardo negli occhi. Non ci sono lacrime, non c'è rabbia: c'è una forma di impotenza. Sono grandi e sconfitti.
In quel momento arriva il primo figlio, il fratello di Hamza, che ha perso una mano durante un assalto dei militari.

Per strada vediamo questo manifesto.

È strano. Si distingue dagli altri per la posa e sembra un nostro cantante degli anni sessanta. Wajdi ci spiega tutto: due settimane fa grazie ad un accordo tra il PFLP e i militari israeliani, dopo 35 anni la madre ha potuto riavere i resti di Hafez Muhammad Hussein Abu Zant, morto in un agguato il 18 maggio 1976. Wajdi ci propone di incontrare questa famiglia, perché a loro avrebbe fatto piacere raccontare la storia del figlio a degli internazionali, in modo che venga ri-raccontata.

Eccoci qua. Io, Simone, Stefano, Laura e Mariella in casa di questa famiglia.
Ci accolgono nel salone di rappresentanza. Ci servono il thè.
Cosa si può chiedere a queste persone? Cosa possiamo dire? Cade il gelo, una lampo che si apre sulla schiena.
La madre, con uno sguardo assente, inizia a raccontare la vicenda del figlio. Noi prendiamo appunti e riusciamo a spiccicare qualche sorriso e alcune parole di circostanza. Proprio quelle parole che ho sempre odiato e che allora mi sono sembrate parole senza alcuna importanza ma così piene di importanza.

Anche questa storia è molto lunga e drammatica. Oggi ho scritto troppo.
Se volete approfondire questa vicenda o se volete sapere cosa sono i cimiteri dei numeri potete leggere quello che ha pubblicato Simone Ogno.

2 comments on ‘Day 15 – Nablus’

  1. il decu says:

    Ci vorrà un po', per mancanza di tempo. Ma leggerò tutto.

  2. La domanda è una sola: ma perché Hamza S.A. Al-Tqtouq è il Diego Pierini mediorientale?

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