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Day 16 – Qalandiya

by rainwiz. Average Reading Time: about 7 minutes.

Questa storia è fatta di occhi.
I miei, al risveglio, sono appiccicati. Dormire sui materassi di "A Bug's Life" avrà pure le sue conseguenze…

L'ostello fantasma di Ramallah è stato poi il colpo di grazia: immaginate di entrare in un centro commerciale malandato e semi abbandonato di notte. Negozi di tutto un po' (lampadine, cavi, colori e detersivi…) chiusi al piano terra, un club di giocatori di carte al primo piano con brande per chi vuole appisolarsi un po', un centro benessere equivoco al 3° piano e al 4° un ostello. Pavimenti che recano i solchi delle carovane di persone, quasi fossero le traiettorie in un GP, un ascensore lacero che con le valigie non sale (meglio, si ferma a metà piano) e una moquette in stile moresco.

Il tipo alla reception, con capello lungo fluente e oleoso, ci vede e spara 300 NIS per la stanza. Ridiamo e gli diciamo che il prezzo vero lo sappiamo, sono 180 NIS perché ce l'hanno detto gli amici del comitato. Resta in silenzio, trance apoplettica. Pausa di 30 secondi. Gli occhi di Stefano sorridono, quelli di Simone sono increduli. Nessuno parla. Gli occhi del tipo sono bassi sulla scrivania, come se noi non ci fossimo. Io gli busso sulla spalla e lui si alza e ci conduce alla stanza. Devo dire dignitosissima, tranne che per le lenzuola e la federa che sembrano aver fatto il '48. Io scelgo la soluzione T-SHIRT as a pillow cover e sacrifico la maglia blu elettrica fabietto's style.

Congiuntivite al risveglio? Bah, forse, ma non importa, nulla di grave. Ovvio che a Roma avrei già preso una medicina appropriata, ma qui mi sembra superfluo. Con questi occhi appiccicaticci esco e il cartello bianco "Tony Blair persona non grata" che campeggia in Al Manara illumina la mattinata. Gli occhi di un venditore di frutta secca sono molto scuri e intensi, quasi più della sua ostinazione nel propinarmi dei datteri. Direzione Gerusalemme, quindi dobbiamo passare per il check point di Qalandiya (o Kalandia).

Ramallah-Gerusalemme sono 9 km. "Praticamente Firenze-Prato" aveva chiosato Federica la sera prima "eppure io ci metto tra 50 minuti e due ore ogni mattina". È venerdì, il giorno della preghiera per i musulmani e le strade sono abbastanza deserte, i negozi prevalentemente chiusi. 10.12, in 4 minuti di service siamo già a Qalandiya, nella piazza affari del check point, dove a seconda della fila vengono stabilite le tariffe per passare con uno dei taxi autorizzati e quindi rapidamente e indenni.

Nonostante i nostri passaporti UE scegliamo per solidarietà di fare la fila come tutti i palestinesi. Gli occhi di Stefano sono fieri, quelli di Simone combattivi.

Arriviamo all'ingresso del check point, sotto una struttura di laminato che serve a proteggere dalla canicola. È pieno zeppo di persone, la fila è lunghissima, non si respira. Hassan, in fila dietro di noi, ci mostra orgoglioso il suo permesso. Ha ventisei anni ed è di Nablus, la città reietta, ma ora lavora in un'azienda di costruzioni israeliana che ha cantieri sia in Israele che in West Bank, quindi da settembre è autorizzato a passare per Qalandiya. Lavora sempre ma questo è il primo venerdì che ha libero tutto per sé, quindi ha deciso di andare a pregare a Gerusalemme, presso la Moschea di al-Aqsa. È la prima volta della sua vita. È molto emozionato e spera di essere lì in tempo, cioè per le 12.00.

Mi stacco dalla file e scopro la scienza del check point perfetto: delle gabbie larghe 70 cm e lunghe 10 metri dove le persone possono passare solo in fila indiana; un tornello temporizzato alla fine della gabbia, un casotto con 3 soldati che controllano le file; il controllo documenti e permessi; un altro tornello; il metal detector; un altro gabbiotto per la perquisizione; l'uscita. Stimo rapidamente che il tornello fa passare 3 persone ogni 5 minuti. Tra l'ingresso nel primo tornello e l'uscita passano 50 minuti. Questo dovrebbe essere un check point modello perché durante il tragitto i soldati non entrano mai a contatto con i passanti e non si dovrebbero verificare gli episodi di violenza denunciati da breaking the silence.

10-15 persone prima di noi c'è una famiglia, un padre molto magro con una bimba di 10 anni e un discolo di 6. Sono vestiti di tutto punto, anche loro vanno a pregare a Gerusalemme. I loro occhi, dietro le sbarre, sono pieni di gioia, emozione, stanno per andare nella terza città santa dopo Medina e La Mecca. Il padre e la figlia hanno gli stessi occhi, chiarissimi. Lei mi guarda e mi sorride, perché biondo, con i pantaloni cargo verdi e la maglietta gialla de "Il futuro non aspetta" devo sembrarle un tipo curioso. Anche io le sorrido, poi mi avvicino verso il fratello che viene costantemente richiamato perché si arrampica sulle grate. Gli regalo una Ricola della scorta di Luisa. La prende senza ringraziare e scappa a mangiarsela dietro le gambe del padre che mi ringrazia.

Mentre i palestinesi sanno sorprenderti con i loro sorrisi, un gruppo di studenti finlandesi è poco più avanti e una delle ragazze sta avendo una piccola crisi di pianto in mezzo alle sbarre serrate. I suoi occhi sono liquidi mentre gli amici cercano di tranquillizzarla. Un uomo con una bambina di 3 anni capisce che è tardi, che non ce la farà (forse non ha il permesso?) e decide di tornare indietro, ma non riesce a passare perché dietro di lui la gente è pressata. Fa un segno a Stefano, che sta fotografando la lunga coda, e poi prende la figlia in braccio e la fa passare piano piano attraverso un buco nel tetto di filo spinato che copre il corridoio. Io accorro, salgo su un'inferriata e prendo la bambina in braccio. Il padre prova a tranquillizzarla. Le spiega che lui deve aspettare l'apertura del tornello. I suoi occhi sono rassicuranti, quelli di un padre che ha tolto la figlia dall'inferno. La piccola singhiozza ma riesco a calmarla con un'altra Ricola.

È il nostro turno. La valigia che mi ha prestato Gabriella non entra nel corridoio, devo trascinarla di lato. Simone è davanti, poi Stefano, poi io. Siamo in piedi, non ci si può sedere, ci si gira a fatica. Dei ragazzi dalla fila parallela ci guardano. Uno di loro ha una borsa sportiva di una società di calcio di Gerusalemme. Chissà se passa da Qalandiya ogni volta per allenarsi?

Passa un'infinità. Finalmente sono davanti al tornello. Appena scatta devo entrare, quindi tengo lo zaino in spalla e la valigia in braccio. Aspetto, maledicendo tutto quello che ho intorno. Alla luce verde provo ad entrare tra le sbarre girevoli, ma lo spazio è piccolo e non riesco. Da dietro un palestinese mi dà uno spintone, mi butta letteralmente dentro, altrimenti la luce diventerà rossa e bisognerà aspettare nuovamente.

Controllo documenti. Altra fila. Altro tornello. Metal detector. Altra fila, in uno spazio di 30 metri quadrati senza sbarre, che mi è sembrato incredibilmente comodo. I finlandesi passano. Gli occhi di uno di loro sono esausti. Altri sono disgustati. Simone è nervoso mentre Stefano sta parlando con Hassan. È un'ora e mezza che siamo qui. La preghiera delle 12.00 ormai è persa, ma gli occhi di Hassan sono comunque vitali: sta per vedere al-Quds per la prima volta.

Metto la valigia e lo zaino sul nastro e mostro il passaporto a due soldatesse che sono annoiate. Una di loro mi parla da dietro al vetro. Non si sente nulla. Le chiedo di ripetere ma comunque non si sente. Mi fa segno di andare avanti, con sdegno.

Vedo l'uscita. Ci sono dei militari in un capannello davanti a noi. E rivedo gli occhi dell'uomo magro. Umiliati. Li stanno mandando indietro. Erano passati a tutti i controlli ma li hanno bloccati prima dell'uscita e ora li stanno riaccompagnando dall'altra parte. Il bimbo piccolo piange. Il padre non dice una parola. Guarda a terra, mentre uno dei soldati lo tiene per un braccio come un criminale. Gli occhi chiarissimi della figlia grande sono persi nel vuoto. Poi tutt'a un tratto si fanno seri, si gira verso il padre strattonato dal militare, come a dirgli "Non ti preoccupare, non fa nulla. Sarà per un'altra volta". È lei a consolare lui, è lei, a 10 anni, a far smettere il pianto del fratellino. È già grande.

Tutti e tre, con i capelli ben pettinati, i pantaloni puliti e stirati o la gonna bella dei lei abbinata a dei calzini corti con i ricami, ora mi danno le spalle camminando verso l'ingresso. Un militare con occhi piccoli e severi viene verso di me e mi ordina di muovermi, di liberare l'uscita. Faccio finta di non capire e resto un'altra manciata di secondi a guardare la famiglia che ora si abbraccia, si stringe mentre torna indietro. I miei occhi li cercano tra le sbarre, ma li ho persi di vista.

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